INTRODUZIONE
La scienza del
passato è la storia. Ma tutto ciò che accade, accade in qualche
tempo, e appena accade entra nel passato. La storia, allora (verrebbe di
pensare) è la scienza di ogni cosa esistita ed esistente, la scienza di
tutto.
In un certo senso è proprio così, ma solo in un certo
senso. Se studiamo qualcosa in quanto evento accaduto nel tempo e ci sforziamo
di capire che cosa precisamente sia successo, e quando esattamente, e
così facendo cerchiamo di individuare gli aspetti peculiari che rendono
quell'evento diverso da qualsiasi altro, allora sicuramente stiamo facendo della
storia. Questo, però, non è il solo modo di studiare la
realtà.
Altre scienze sono meno (o non sono affatto) interessate
alla peculiarità degli eventi che studiano e, invece delle differenze,
puntano a cogliere le somiglianze tra le cose, e cioè a ricondurre eventi
diversi entro categorie o regole generali. Queste scienze non ignorano affatto
la dimensione temporale delle cose, ma il tempo di cui si occupano è
quello scandito dall'orologio, sempre uguale, uniforme in ogni direzione. Per
queste scienze, infatti, la distinzione tra il prima e il dopo, che è
fondamentale per la storia, o la frattura tra passato e futuro, che ci appare
così evidente (e talvolta così drammatica) quando la riferiamo
alla nostra esistenza o all'esistenza del mondo in cui viviamo, non hanno
praticamente rilevanza: la gravitazione universale non viene né prima
né dopo di niente, non appartiene né al passato né al
futuro, ma al «sempre», che è un tempo senza differenze e senza
qualità.
Occorre precisare subito che queste scienze «non
storiche» non vanno identificate con le scienze naturali, o per lo meno non
con tutte. In verità, molte scienze naturali hanno un'impostazione
schiettamente storica, sono cioè interessate alla ricostruzione del
passato come sequenza di eventi individuali e irripetibili. Senonché, non
tutte le scienze che hanno un'impostazione storica si chiamano
«storia», poiché l'uso, che è quello che in definitiva
decide del significato delle parole, non lo consente. Per capire perché
non lo consente bisogna ripercorrere brevemente la storia della parola
«storia» (il bisticcio di parole qui è
inevitabile).
Storia viene dal latino historia, che è l'equivalente
del greco historia, legato a histor. Hìstor, in cui sopravvive la radice
indoeuropea weid - o wid -, che è la stessa di vedere, indica il
testimone oculare, «colui che sa perché ha visto». Historia sta
dunque a indicare il sapere che è frutto di ricerca (e non di
rivelazione, come sarebbe il sapere religioso) e specialmente il sapere ottenuto
viaggiando, e cioè acquisito non semplicemente per sentito dire, ma per
esperienza personale. Historia, insomma, vuol dire cognizione diretta, indagine,
scienza. Vuol dire anche esposizione delle cose che si sono investigate,
narrazione dei fatti di cui si è stati testimoni, storia.
Può
sembrare strano che un termine che richiama l'idea del «vedere con i propri
occhi» abbia finito con il designare una disciplina che ha come suo oggetto
il passato, ossia qualcosa di cui, per definizione, non si può avere
esperienza diretta. La cosa però non è più tanto strana se
si pensa alla storia come all'arte di interrogare i testimoni oculari, all'arte
cioè di interpretare i resti, i segni, i documenti che sono testimonianze
del passato e che ne mantengono vivo il ricordo. La storia, allora, si potrebbe
definire (in modo del tutto corretto) proprio come scienza delle
testimonianze.
Il termine italiano «storia» ha conservato i
vecchi significati delle corrispondenti parole greca e latina, ma ne ha
acquistati di nuovi. Né il greco historia, né il latino historia,
ad esempio, stavano a indicare «l'insieme dei fatti accaduti nel
passato» (o, più semplicemente, «il passato»), che
è invece uno dei significati più frequenti di «storia».
è appunto questo il significato che la parola assume in espressioni come:
«Nella storia della nostra città non è mai avvenuto un fatto
del genere», oppure: «Non sono solo i grandi personaggi che
determinano il corso della storia». In espressioni come: «Preferisco
la matematica alla storia», oppure: «La storia non serve a
niente», il termine «storia» torna invece a indicare la
disciplina che studia il passato.
Occorre osservare che mentre la storia
come sinonimo di passato si riferisce a qualsiasi realtà, naturale o
umana, la storia come studio del passato si riferisce esclusivamente al passato
dell'uomo. Si può dire infatti «storia della Terra» per
indicare l'insieme delle vicende attraversate nel corso del tempo dal nostro
pianeta, o «storia della vita» per indicare le vicende dell'evoluzione
delle specie, e si possono adoperare le stesse espressioni per indicare la
narrazione di tali vicende (per esempio nella frase: «Il primo volume di
questa enciclopedia è una breve storia della Terra e della vita sulla
Terra»); ma le discipline che studiano la storia della Terra e la storia
della vita sono rispettivamente la geologia e la biologia, non la storia.
è in questo senso che si è detto che non tutte le discipline
storiche si chiamano «storia»: la consuetudine ha riservato il nome
«storia» (nel senso di scienza del passato) alla disciplina che studia
soltanto il passato dell'uomo.
Il fatto che la stessa parola designi il
passato e lo studio del passato è talvolta causa di confusione. I Latini
adoperavano due espressioni distinte, indicando il passato (dell'uomo) con res
gestae (i fatti, e cioè le cose fatte, le imprese compiute dagli uomini)
e lo studio e la narrazione del passato con historia rerum gestarum. L'italiano,
comunque, ha anche un'altra parola per indicare la scienza che studia il passato
dell'uomo (l'historia rerum gestarum dei Latini): «storiografia», che
però è meno usata di storia, ed ha un significato in parte
diverso. Storiografia è infatti l'arte di scrivere la storia, ossia
l'insieme delle tecniche necessarie allo storico per indagare il passato
dell'uomo e per esporre nel modo più opportuno i risultati delle sue
ricerche. Storiografia è anche il complesso delle opere scritte dagli
storici. La storia della storiografia è lo studio (e la narrazione) dello
sforzo compiuto dagli storici per conoscere il passato dell'uomo. La differenza
tra storia e storiografia si rileva facilmente: se diciamo «la storia
italiana» intendiamo sicuramente (e soltanto) il passato dell'Italia, ossia
l'insieme delle vicende che hanno interessato l'Italia; se diciamo invece
«la storiografia italiana» indichiamo sicuramente (e soltanto)
l'attività presente e passata degli storici italiani oppure l'insieme
delle loro opere.
LE TESTIMONIANZE DEL PASSATO
Si è detto che del passato, per
definizione, non possiamo avere esperienza diretta e che possiamo conoscerlo
solo attraverso testimonianze e documenti. Almeno in un caso, però, quel
che vediamo non è un semplice documento, un resto o una traccia del
passato, ma è il passato stesso, il passato (per così dire)
«in carne e ossa»: il cielo stellato. La luce delle stelle, infatti,
viene da molto lontano (nel tempo oltre che nello spazio), e noi vediamo le
stelle come erano, non come sono, e forse molte di loro nel momento in cui le
vediamo non esistono neppure più. Il cielo stellato è insomma come
una grande esposizione di eventi passati; quando lo guardiamo siamo spettatori
diretti di ciò che è stato, e per di più vediamo in
contemporanea eventi che sono successi in tempi diversi.
Di norma,
comunque, non è così: nessun egittologo ha la possibilità
di incontrare il faraone Ramsete II, come nessuno storico del Risorgimento ha la
possibilità di assistere allo sbarco dei Mille. L'immagine che possiamo
avere del passato dell'uomo è una ricostruzione ipotetica, indiziaria,
ottenuta ricomponendo pazientemente i frammenti che ne restano.
Il passato
non si conserva da sé. Certo, ogni evento lascia delle tracce e i resti
del passato si accumulano incessantemente intorno a noi. Ma, a parte che anche
le tracce più profonde possono essere cancellate, esse diventano
documenti (dal latino docere = «insegnare») solo nel momento in cui
qualcuno le riconosce per tali (ossia ha voglia di imparare quel che esse
possono insegnare). Le ossa dei dinosauri sono sparse per il mondo da milioni di
anni, ma solo dall'inizio del secolo scorso si è cominciato a dar loro il
significato di indizi di un'antichissima evoluzione delle forme animali e a
studiarle come documenti di una storia della vita.
Le tracce del passato
sono di molti tipi. Ci sono innanzi tutto i documenti materiali, che consistono
in cose, come, ad esempio, fossili, manufatti, resti monumentali, ecc. Anche la
composizione chimica di una pietra, la conformazione di un rilievo montuoso, o
la disposizione degli strati rocciosi in un terreno sono testimonianze di eventi
remoti, e quindi sono fonti per la ricostruzione di quegli eventi. Da quando,
poi, esiste il genere umano, il passato non ha lasciato più soltanto
tracce fisiche, ma anche mentali: si tratta delle immagini e delle emozioni che,
prodotte da un qualsiasi evento e immagazzinate nella memoria dell'uomo, sono
state trasmesse di generazione in generazione per iscritto o oralmente e sono
giunte, più o meno profondamente alterate, sino a noi. I segni del
passato non stanno dunque solo nelle cose, ma anche nel linguaggio, nelle
credenze, nelle regole di comportamento, che in ogni gruppo umano riflettono una
lunga esperienza collettiva. Non è facile risalire a questa esperienza
partendo da una parola, da un'immagine o da una norma, ma non è
più difficile che risalirvi a partire da documenti materiali, anch'essi
soggetti ad alterazioni, manomissioni, perdite.
Alle tracce involontarie
che ogni avvenimento lascia di sé nelle cose o nella mente degli uomini
si aggiungono le testimonianze che gli uomini hanno prodotto intenzionalmente
per ricordare e per farsi ricordare: iscrizioni, cronache, diari, fotografie,
disegni, ecc. Se non possiamo assistere allo sbarco dei Mille, possiamo
però consultare le memorie di chi c'era. Se non possiamo incontrare il
faraone Ramsete II, possiamo però leggerci il poema che celebra le sue
vittorie e che fu riprodotto a suo tempo, a perenne memoria, sulle pareti di
più di un tempio.
Il bisogno di conservare il ricordo di ciò
che avviene si esprime non solo nella produzione di monumenti (dal latino monere
= «ricordare», oggetti di qualsiasi genere costruiti con la specifica
funzione di ricordare persone o avvenimenti: tombe, statue, stele, monete,
lapidi ecc.), ma anche nella raccolta e nella conservazione di documenti di
vario tipo, scritti o no: una funzione a cui di solito presiedono apposite
istituzioni come i musei (che raccolgono prevalentemente oggetti materiali), le
biblioteche (che raccolgono libri, a stampa o manoscritti) e soprattutto gli
archivi.
Ogni amministrazione pubblica o privata ha bisogno di conservare,
nell'originale o in copia, i documenti scritti (corrispondenza, verbali di
riunioni, libri contabili, contratti, ecc.) che essa ha prodotto o che le sono
pervenuti o che comunque si riferiscono alla sua attività: ha bisogno,
cioè, di un archivio.
Di solito si distingue l'archivio corrente,
che raccoglie pratiche recenti o documenti la cui consultazione può
rendersi necessaria nell'ordinaria attività dell'ufficio, dall'archivio
«storico», in cui si conservano i documenti che riguardano pratiche
definitivamente chiuse o attività ormai cessate.
Periodicamente ogni
amministrazione deve fare una revisione delle carte conservate nell'archivio
corrente per trasferire nell'archivio storico quelle che praticamente non
servono più. Di solito non vengono trasferite tutte: quelle che si
ritiene non abbiano alcun interesse «storico» si buttano
via.
UN ARCHIVIO DI FAMIGLIA
Anche le famiglie hanno un archivio, grande
o piccolo che sia, conservato magari in una scatola di latta o nel cassetto
della credenza. Tutti infatti siamo tenuti a conservare certi documenti, come le
ricevute dell'affitto, della luce, ecc., gli atti di proprietà dell'auto,
della casa, ecc., o i diplomi di scuola, che in qualsiasi momento possiamo
trovarci nella necessità di esibire (archivio corrente). In molte
famiglie, poi, si conservano delle «vecchie carte», lettere, quaderni
di appunti, diari, fotografie, che servono solo per ricordo (archivio storico).
A volte tra queste carte ci sono dei pezzi curiosi: per esempio il quaderno dove
la nonna segnava ogni giorno le spese della famiglia o dove appuntava le ricette
di cucina. Un classico documento che si trova negli «archivi storici»
delle famiglie è l'album del matrimonio, con le foto della cerimonia e
magari qualche parola di augurio tracciata da amici e parenti.
Anche nelle
famiglie ogni tanto si fa un po' di «ripulisti» nei cassetti. Il guaio
in entrambi i casi è che non c'è alcun criterio per stabilire a
priori che cosa merita di esser conservato e che cosa no, e spesso si finisce
per buttare via il meglio.
Per esempio c'è un pregiudizio molto
diffuso secondo il quale meriterebbero di esser conservati solo i documenti che
riguardano personaggi famosi. Così, un autografo di Garibaldi,
consistente magari solo nella sua firma, avrebbe un valore «storico»,
mentre il quaderno delle ricette della nonna non lo avrebbe. è vero tutto
il contrario: la nonna sta nella storia né più né meno di
Garibaldi e mentre la firma di Garibaldi (anche se può avere un certo
valore commerciale per i collezionisti di cimeli) non aggiunge nulla alle nostre
conoscenze, il quaderno della nonna può rivelarsi una miniera di notizie
interessanti.
ARCHIVIO
La parola «archivio» (che deriva
dal greco archéion = «Curia», ossia sede degli uffici pubblici
e, per estensione, questi stessi uffici) indica sia una raccolta di atti
pubblici o privati, sia l'edificio, il locale o il mobile che ospita la
raccolta. Ma si chiama archivio, anche, l'ufficio o l'ente che cura la raccolta
e la conservazione di tali documenti.
Gli archivi storici sono di diversi
tipi a seconda dell'ente da cui hanno tratto origine. Una prima grande
distinzione è quella tra archivi pubblici e archivi privati. In italia
gli Archivi di Stato, che esistono in ogni capoluogo di provincia, conservano le
carte della prefettura e degli uffici statali a base provinciale. Gli Archivi di
Stato delle città che sono state capitali di uno degli antichi Stati
italiani (Roma, Milano, Torino, Napoli, Firenze, ecc.) conservano, oltre alle
carte della prefettura, quelle del vecchio Stato preunitario. A Roma, oltre
all'Archivio di Stato provinciale, c'è l'Archivio Centrale dello Stato,
che conserva i documenti dei vari Ministeri dall'unità d'Italia in poi.
Tra gli archivi pubblici ci sono gli archivi storici dei Comuni, che purtroppo
non sempre sono curati come meriterebbero dalle relative amministrazioni
municipali. Di grandissimo interesse sono gli archivi ecclesiastici ossia gli
archivi delle curie vescovili, degli ordini religiosi, delle parrocchie. Questi
ultimi conservano tra l'altro i registri dei battesimi, dei matrimoni e delle
morti che rappresentano la fonte principale per la ricostruzione delle vicende
demografiche dalla fine del Cinquecento, quando (in applicazione delle
disposizioni del Concilio di Trento) cominciarono ad essere compilati,
all'Ottocento, quando cominciarono a funzionare i servizi anagrafici dello
Stato. Ci sono infine gli archivi privati, di aziende o di famiglie. Per gli
archivi ecclesiastici (specialmente parrocchiali) e per quelli privati esistono
talvolta grossi problemi relativi sia alla conservazione del materiale, sia alla
possibilità di consultarlo. Cosi, ad esempio, nonostante qualche
progresso compiuto negli ultimi decenni, sono ancora poche le aziende che curano
i propri archivi storici e ancor meno quelle che li aprono agli
studiosi.
TESTIMONIANZE PARZIALI O FALSE
Dove c'è un'intenzione c'è
uno scopo, e ogni documento intenzionale è un documento interessato.
Qualche volta lo scopo del documento è dichiarato: è il caso dei
monumenti, e in particolare delle iscrizioni celebrative o infamanti, volte a
perpetuare la buona o la cattiva memoria di un personaggio o di un avvenimento.
Altre volte bisogna scoprirlo, perché lo scopo per il quale un documento
viene redatto è la prima e più importante informazione che
dobbiamo procurarci per valutare l'attendibilità del documento stesso.
è probabile infatti che nei documenti prodotti intenzionalmente
l'interesse ottenebri in qualche misura l'obbiettività di chi ne è
l'autore, ed è anche possibile che lo induca alla frode, ossia ad una
consapevole falsificazione della realtà.
Non è affatto raro
imbattersi in documenti falsi, in tutto o in parte, e spesso è assai
difficile distinguerli dagli autentici. La difficoltà di riconoscere il
falso è qualche volta dovuta all'abilità del falsario, ma
più frequentemente al fatto che - in questo come in altri settori - la
linea che divide il vero e il falso non è mai così netta come si
vorrebbe. Cerchiamo di spiegarci con qualche esempio.
Il Medio Evo è
un po' l'età d'elezione dei falsi storici, perché, in rapporto
alla scarsa familiarità che la gente comune aveva con la scrittura, i
documenti scritti erano dotati di grandissima autorità (e quindi
assicuravano un forte vantaggio a chi poteva esibirli), ma, al tempo stesso,
erano relativamente facili da falsificare. Proprio i falsi medioevali forniscono
innumerevoli prove della relativa ambiguità del concetto di
«falso»: ci sono documenti sicuramente falsi nella sostanza e
ineccepibili nella forma, come, ad esempio, quelli che uno sleale funzionario
della cancelleria pontificia costruì con tutti i crismi, e cioè
mettendovi tutte le clausole, le firme e i sigilli richiesti; e ce ne sono di
formalmente falsi, che però nella sostanza erano veri, come quelli
fabbricati da certi buoni monaci che, avendo perso in un incendio gli originali
dei titoli di proprietà di alcune terre da loro dipendenti, se li erano
ricostruiti alla bell'e meglio, senza con questo voler ingannare
nessuno.
Quando un documento risulta inattendibile non è detto che
si tratti di un falso intenzionale o di una testimonianza partigiana. Spesso la
deformazione della realtà o il suo fraintendimento sono una conseguenza
del tutto involontaria del fatto che ognuno di noi osserva gli avvenimenti di
cui è spettatore attraverso le lenti della propria cultura, delle proprie
credenze, dei propri gusti: in questo senso un certo grado di
«deformazione» c'è in ogni testimonianza. è compito
dello storico «tarare» le testimonianze con cui ha a che fare tenendo
conto della cultura, della mentalità, del temperamento dei loro
autori.
A proposito delle deformazioni proprie di un certo ambiente
culturale o di una determinata atmosfera spirituale, lo storico medievista
Gabriele Pepe (1899-1971) ha riportato un divertente esempio.
... La
superstizione medioevale contribuisce assai spesso a falsare i fatti: quando uno
storico racconta che papa Leone III fu assalito dai nemici e poco mancò
che non gli fossero tagliate le mani e cavati gli occhi, si può provare
un senso di pena per la insanabile ferocia umana, ma non si avverte nulla di
peculiare del Medio Evo. Lo stesso fatto può avvenire in ogni tempo. Ma
quando il cronista contemporaneo pretende affermare che a Leone furono davvero
strappati occhi e lingua, e che poi questi miracolosamente rinacquero, allora
abbiamo il peculiare del Medio Evo...
La testimonianza perfettamente
obbiettiva, una sorta di calco della realtà, non esiste. Ogni
testimonianza è parziale, nel duplice significato della parola: è
«di parte» (favorevole cioè a una delle parti in causa) ed
è «limitata» (capace di cogliere solo una parte della
realtà). Ciò non toglie che tutti i documenti, e perfino quelli
volutamente e palesemente falsi, siano utilizzabili dallo storico, se non altro
per stabilire che in un dato momento, da parte di determinate persone c'era un
interesse a falsificare certi fatti. L'importante è usare i documenti in
modo non ingenuo, sapendo con che cosa esattamente si ha a che fare: ed è
dovere dello storico essere sospettoso, non fidarsi mai troppo delle proprie
fonti.
Per stabilire il valore di un documento è buona regola
cercare di ripercorrere la storia del documento stesso e domandarsi: come
è venuto alla luce? chi se ne è servito per primo? a chi giovava?
E poi occorre esaminarlo attentamente per vedere se per caso non sia in qualche
parte contraddittorio: il diavolo, si dice, fa le pentole ma non i coperchi, e
anche i falsi storici si scoprono spesso per le loro contraddizioni interne.
Infine, bisogna frugare nella documentazione disponibile alla ricerca di
eventuali testimonianze che lo contraddicano in tutto o in parte: solo il
confronto di più fonti relative allo stesso evento ci permette di
valutare con qualche sicurezza sia le fonti, sia l'evento.
Quel che vale
per le singole testimonianze vale a maggior ragione per le raccolte
documentarie, e in particolare per gli archivi storici. Ogni archivio, per
grande e importante che sia, contiene solo una parte (e in genere una piccola
parte) della documentazione originariamente prodotta dagli uffici, dalle
famiglie o dalle persone di cui conserva le carte: come si è visto,
è sempre il risultato di una selezione, di una scelta deliberata. Salvo
errori o sviste (sempre possibili) da parte di chi ha curato la selezione, si
conserva la documentazione solo di ciò che si vuole ricordare e far
ricordare, mentre si distrugge quella relativa ad eventi di cui si ritiene
inutile o non conveniente conservare la memoria. Una raccolta documentaria
è insomma una tipica «testimonianza volontaria» e spesso ha un
dichiarato valore celebrativo. Non è mai una fonte «oggettiva»,
«neutrale», «imparziale», «incontestabile» di
informazioni. Anche qui per utilizzarla in modo non ingenuo è bene capire
come si è formata, a quali scopi e con quali procedure. Bisogna insomma
domandarsi: - Chi ha voluto che questi documenti fossero conservati? E
perché proprio questi e non altri? -
IL CONSIGLIO D'EGITTO
Ambientato a Palermo negli anni tra il1782
e il 1795, il romanzo di Leonardo Sciascia Il Consiglio d 'Egitto, pubblicato
nel 1963, narra dell'ideazione e della realizzazione di falsi documenti storici
ad opera di don Giuseppe Vella, fracappellano dell'Ordine di Malta. Gli ultimi
decenni del XVIII secolo, minuziosamente ricostruiti nel romanzo, vedono la
diffusione in Sicilia dei principi del movimento riformatore illuministico,
sostenuto dallo stesso Domenico Caracciolo, viceré di Sicilia dal 1871 e
deciso oppositore del potere baronale sull'isola. Per la Corona, cioè per
Ferdinando IV di Borbone e per sua moglie Maria Carolina di Austria, i baroni
siciliani, legati a vastissime proprietà terriere, costituivano un vero
intralcio, che il Caracciolo cercò di eludere attraverso una serie di
provvedimenti volti a reintegrare le leggi feudali a svantaggio dei baroni
stessi. In questo quadro si inserisce la vicenda della truffa: in occasione
dell'inaspettato arrivo dell'ambasciatore del Marocco, il Vella viene chiamato a
fare da interprete, in realtà conoscendo ben poco di arabo. Nel monastero
di San Martino a Palermo, si mostra all'ospite in cerca di testimonianze arabe
sull'isola, un codice, che l'Ambasciatore riconosce subito come
- Una
vita del profeta Maometto - disse - niente di siciliano: una vita del profeta,
ce ne sono tante.
Ma il Vella traduce:
- Sua eccellenza
dice che si tratta di un prezioso codice: non ne esistono di simili nemmeno nei
suoi paesi. Vi si racconta la conquista della Sicilia, i fatti della
dominazione...-.
Nasce così Il Consiglio di Sicilia,
«storia civile, e militare di tutto quel tempo, che la Sicilia a' Saracini
soggiacque», opera di traduzione che procurerà al Vella una migliore
considerazione sociale e presto un'abbazia. Ma è con Il Consiglio
d'Egitto, «il romanzo, lo straordinario romanzo dei musulmani di
Sicilia», che si rivela il vero potere della falsificazione,
perché
... Il Caracciolo stava tentando di incenerire tutta la
dottrina giuridica feudale, tutto quel complesso di dottrine che la cultura
siciliana aveva in più secoli, ingegnosamente, con artificio, elaborato
per i baroni, a difesa dei loro privilegi [...] Loro, baroni e giuristi,
affermavano che re Ruggero e i suoi baroni erano stati, nella conquista della
Sicilia, come soci di una impresa commerciale [...]; ebbene, don Giuseppe
avrebbe tirato fuori un codice arabo in cui le cose della Sicilia normanna
sarebbero apparse [...] in tutt'altro ordine: tutto alla Corona, e niente ai
baroni...
Don Giuseppe quindi trova una valida ragione per la sua
truffa, convinto com'è che
... Il lavoro dello storico
è tutto un imbroglio, un'impostura: [...] c'era più merito ad
inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte [...] - La storia non
esiste [...] La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro
viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà nella
storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da
sentirlo?»...
Il romanzo di Sciascia si conclude con il grande
riscatto dell'abate Vella, sempre più vicino all'altro personaggio
principale, il giovane idealista Francesco Paolo di Blasi che così
interpreta il vero significato della truffa:
... Eh no, questo non
è un volgarissimo crimine. Questo è uno di quei fatti che servono
a definire una società, un momento storico. In realtà, se in
Sicilia la cultura non fosse, più o meno coscientemente, impostura; se
non fosse strumento in mano del potere baronale, e quindi finzione, continua
finzione e falsificazione della realtà, della storia... Ebbene, io vi
dico che l'avventura dell'abate Vella sarebbe stata impossibile... Dico di
più: l'abate Vella non ha commesso un crimine, ha soltanto messo su la
parodia di un crimine rovesciandone i termini... Di un crimine che in Sicilia si
consuma da secoli...
L'ARTE DELLA MEMORIA
L'arte della memoria o mnemotecnica
è stata largamente coltivata in Occidente. Secondo la tradizione, ne
sarebbe stato inventore il poeta greco Simonide di Ceo (556-468 a.C.), che
quando era ospite di un potente signore della Tessaglia, fu testimone di un
terribile incidente, da cui scampò per miracolo: il tetto della sala in
cui si stava svolgendo un banchetto crollò improvvisamente schiacciando
tutti i convitati. I loro corpi erano talmente maciullati che i parenti non
furono in grado di identificarli. Ma Simonide, che gli Dei avevano voluto
risparmiare facendolo uscire dalla sala poco prima del crollo, ricordava il
posto in cui ognuno era seduto e poté quindi indicare l'identità
di ogni cadavere. Questo episodio gli avrebbe suggerito l'opportunità di
collegare mentalmente ciò che si vuole ricordare ad una ordinata
successione di oggetti o di luoghi, analoga alla disposizione dei convitati
nella sala del banchetto.
Il sistema, fondato sulla memoria visiva,
funzionava pressappoco in questo modo. Un oratore o un insegnante che intendesse
pronunciare un discorso o una lezione senza ricorrere ad appunti scritti, ma
senza timore di perdere il filo, doveva associare ogni idea o tema del discorso
a un posto all'interno di una sala o di un edificio o di una città
immaginaria: la disposizione dei particolari (mobili, arredi, ecc.) nella sala,
delle sale nell'edificio e degli edifici nella città avrebbe
rappresentato schematicamente la struttura del discorso, sicché,
ripercorrendo con l'immaginazione quelle sequenze di luoghi sarebbe stato facile
seguire nell'esposizione la necessaria concatenazione degli
argomenti.
MEMORIA
L'italiano memoria viene dal latino memor
(= «colui che ricorda»), equivalente al greco mnémon (da cui
mnemonica = «arte della memoria»), che è un raddoppiamento
della radice indoeuropea [s]mer che indica ricordo (ma anche preoccupazione,
cruccio). La memoria è la capacità di far rinascere le esperienze
passate, ossia la facoltà di acquisire cognizioni, conservarle,
richiamarle, riconoscerle. La memoria è una funzione complessa; per
descriverla è stata distinta in tre strutture di differente livello. Vi
è una memoria delle sensazioni e dei movimenti, o memoria biologica, che
è comune agli animali e agli uomini, e in cui ogni senso (il gusto,
l'olfatto, la vista, l'udito, il tatto) possiede una sua memoria. è una
funzione elementare, ma comporta una certa misura di riconoscimento dello
stimolo, a cui risponde un'azione. Questa risposta, però, non implica un
processo di pensiero: non è necessario pensare quando si tratta di aprire
la bocca per farci entrare un cucchiaio di minestra. La memoria più
altamente differenziata è la memoria sociale, quella cioè che
è propria dell'uomo che vive in società. Quando un bambino
racconta una favola a un suo amico, o quando racconta a scuola ciò che ha
letto in un libro, si serve già della memoria sociale; il racconto
implica infatti una logica e un ordine razionale, utilizza rappresentazioni
collettive (ossia comuni ad altri esseri umani), ed è inseparabile dal
riconoscimento del passato come tale. In particolari situazioni nelle quali i
nostri legami con la vita sociale sono allentati, come nel sogno e nel delirio,
possiamo rivivere avvenimenti passati senza riconoscerli come tali e
considerandoli presenti. Questo tipo di memoria viene chiamata
«autistica»: soggettiva e asociale, prende i suoi materiali dalla
memoria senso-motoria e dalla memoria sociale. Analogamente a quest'ultima,
è una ricostruzione dell'esperienza passata, che però non si basa
sulle categorie logiche proprie della memoria sociale, ma sugli affetti, sui
sentimenti, sull'emotività. Questi tre tipi di memoria, che coesistono e
interferiscono l'uno con l'altro nella vita dell'adulto, compaiono grado a grado
durante lo sviluppo dell'individuo. La memoria senso-motoria si manifesta nel
neonato. Verso i tre anni il bambino ha una memoria prevalentemente autistica,
perché non distingue ancora il reale dall'immaginario e il passato dal
presente. Progressivamente la memoria autistica cede il posto, durante la
veglia, alla memoria sociale per riapparire nel sogno. è stato osservato
che si ricordano meglio le cose che si sono apprese meglio, vale a dire che i
fattori che favoriscono l'apprendimento favoriscono anche il ricordo. Tra gli
elementi che facilitano la memorizzazione dei dati il più importante
è l'atteggiamento favorevole: è più facile ricordare le
cose che riteniamo opportuno ricordare. C'è poi una tonalità
emotiva della memoria, in virtù della quale si ricordano più
facilmente gli elementi legati a esperienze piacevoli o spiacevoli, mentre si
dimenticano più facilmente quelli legati a esperienze emotivamente
neutre: negli adulti il ricordo più antico si colloca tra i 3 e i 5 anni
di età ed è legato nel 95 per cento dei casi circa ad una
colorazione emotiva, soprattutto di paura o di piacere. Infine, i materiali che
si presentano organizzati in una struttura o in un sistema, e cioè in un
qualcosa che ha per noi un significato, si ricordano più facilmente di
materiali isolati, frammentari, che non sono in relazione con
altro.
LA TRADIZIONE ORALE
Oggi le tecniche di registrazione magnetica
e fotografica permettono di fissare il ricordo di ciò che accade
attraverso immagini e suoni colti nel momento stesso della loro produzione. Per
millenni il supporto più efficace della memoria è stata invece la
scrittura. E prima della scrittura non c'era che la tradizione orale, fondata su
quel labile strumento che è la memoria individuale.
In verità
la tradizione orale è più efficiente di quanto non paia alla
prima. In fondo le migliaia di versi dell'Iliade e dell'Odissea sono state
tramandate a memoria per secoli (anche se probabilmente attraverso innumerevoli
rifacimenti) prima di essere fissate per iscritto e la stessa cosa è
accaduta per altre grandi opere dell'antichità, dalla Bibbia ai grandi
poemi epici indiani. In molte parti del mondo esistono ancora culture che
ignorano la scrittura e affidano alla memoria di persone a ciò
specificamente deputate (poeti, sacerdoti, cronisti e cantastorie) il compito di
ricordare le genealogie dei capi, dei re o degli Dei o di cantarne le
gesta.
Questi depositari della memoria collettiva si aiutano con diversi
espedienti. Spesso il racconto del passato ha la forma di poema o di canzone e
il ritmo o la melodia che accompagnano la narrazione possono soccorrere la
memoria. C'è chi recita le genealogie degli antenati seguendo le tacche
incise su un bastone, e chi invece usa come promemoria i nodi di una corda o i
grani di un rosario. Nell'isola di Pasqua sono state ritrovate tavolette su cui
sono incisi simboli e segni geometrici. Si è pensato a una specie di
scrittura e se ne è cercata inutilmente la chiave, ma anche in questo
caso probabilmente si tratta di promemoria, in cui i segni corrispondono alle
strofe o ai punti salienti di un poema.
Anche dove la scrittura e le altre
tecniche di registrazione sono conosciute e generalizzate la tradizione orale
continua ad operare. Aneddoti, leggende, proverbi, barzellette, canzoni, fiabe,
preghiere e dicerie di ogni genere si tramandano da una generazione all'altra
appunto per questa via, passando cioè di bocca in bocca. Allo stesso
modo, almeno in gran parte, si trasmettevano, prima dell'avvento del lavoro
standardizzato (ma in una certa misura si trasmettono ancora) le pratiche di
lavoro: quelle registrate nei manuali di formazione professionale non
rappresentano che una minima parte del patrimonio di conoscenze che circolava
tra operai e contadini. Negli ambienti popolari che, almeno nel passato, avevano
minore familiarità con la scrittura, la tradizione orale è stata
particolarmente attiva; essa però non ha mai cessato di operare anche
nelle classi colte.
Da molti decenni etnologi, antropologi culturali e
studiosi di folclore (dall'inglese folk = «popolo» e lore =
«dottrina», «sapere»: studiosi delle tradizioni popolari)
trascrivono e registrano le espressioni della cultura popolare, sicché si
può dire che anche in questo settore la tradizione orale ha lasciato
posto ad altre (e più efficienti) forme di conservazione. La cosa
però vale soltanto (e in parte) per la conservazione, giacché la
trasmissione resta prevalentemente orale: le favole, grazie a dio, i bambini se
le fanno sempre raccontare dalla nonna, non le vanno a cercare nelle raccolte
degli studiosi di folclore.
STORIA E ARCHEOLOGIA
«Storia», si è detto, sta
a indicare il passato. Più precisamente sta a indicare il passato
dell'uomo. Ma in senso ancora più stretto indica soltanto quella parte
del passato dell'uomo, di cui l'uomo stesso ci ha tramandato notizia, e
cioè quel periodo relativamente breve (alcune migliaia di anni) che va
dall'adozione di qualche sistema di scrittura (o di registrazione) ai giorni
nostri. I milioni di anni che intercorrono tra la comparsa delle prime specie
umane e la produzione dei primi documenti scritti costituiscono propriamente
l'ambito della preistoria.
Il termine «preistoria» risale alla
metà del secolo scorso. Apparentemente è un non-senso,
perché suggerisce l'idea di un tempo che viene prima della storia, ossia
prima del tempo stesso. In verità, ancora nel primo Ottocento, quel che
si sapeva sul passato del genere umano derivava pressoché per intero da
testimonianze scritte, a cominciare dalla Bibbia, uno dei testi più
antichi della tradizione occidentale. Sulla base del racconto biblico non si
riusciva a contare più di quattro o cinquemila anni tra la creazione del
mondo e la nascita di Cristo, e si contavano appena sei giorni tra l'inizio
della creazione del mondo e la comparsa dell'uomo. Solo gradualmente ci si rese
conto che il mondo e il genere umano erano molto più antichi.
Fu
appunto l'accumularsi, nel primo Ottocento, di prove schiaccianti intorno
all'antichità del genere umano che suggerì l'opportunità di
designare con un nome nuovo il periodo più remoto e ancora inesplorato
della storia, quello della storia non scritta. Sarebbe forse stato meglio
chiamarlo in qualche altro modo, anziché preistoria, ma questa è
davvero una questione solo di parole: ad evitare equivoci è sufficiente
stabilire una volta per tutte che la preistoria, a dispetto del nome, fa parte a
pieno titolo della storia dell'uomo.
L'opportunità di distinguere
anche nel nome preistoria e storia deriva tra l'altro dalla diversità
degli strumenti e delle metodologie richieste per lo studio dell'una e
dell'altra. La documentazione scritta, fonte principale, anche se non unica, per
la ricostruzione della storia in senso stretto, richiede una buona preparazione
nel campo della filologia, della paleografia, della diplomatica. La sola
documentazione esistente sulla preistoria è costituita invece da resti
materiali, fossili e manufatti, alla cui interpretazione devono cooperare le
discipline più diverse, dalla geologia, alla chimica, alla biologia,
ecc.
La disciplina che tradizionalmente studiava questo tipo di fonti era
l'archeologia. Il termine (dal greco archaìos = «antico»)
significa alla lettera scienza delle civiltà antiche, e richiama in
qualche modo le origini di questa disciplina, strettamente legate, dal
Rinascimento in poi, alla riscoperta dell'arte classica, al fenomeno del
collezionismo ed al commercio degli oggetti d'arte antichi. Il ritrovamento di
questi oggetti era spesso fortuito e per moltissimo tempo la ricerca e lo scavo
dei reperti è stato condotto senza un preciso metodo.
Anche se nata
dallo studio degli oggetti dell'arte classica l'archeologia non è legata
a nessuna epoca o civiltà particolare: c'è un'archeologia
preistorica, che è comunemente chiamata in Italia paletnologia (dal greco
palaiòs = «antico» e éthnos = «popolo»), e
c'è un'archeologia che sotto denominazioni diverse (industriale, rurale,
ecc.) studia i resti materiali di epoche a noi vicinissime. Ci sono poi tante
specializzazioni quante sono le culture studiate: l'egittologia, l'assiriologia,
l'etruscologia, l'archeologia precolombiana (che studia le culture indigene
dell'America prima dell'arrivo degli Europei), ecc. L'archeologia non è
neppure legata ad un particolare tipo di manufatto, per esempio all'opera
d'arte. Esiste, naturalmente, un'archeologia che si occupa in maniera specifica
della produzione artistica delle epoche passate. Ma l'oggetto dell'archeologia
è tutto l'insieme della documentazione materiale relativa alla presenza
dell'uomo. I documenti a cui viene spontaneo pensare per primi sono i suoi
manufatti: strumenti, arredi, monili e, naturalmente, monumenti e opere d'arte.
Ma non meno importanti sono quegli elementi materiali (rifiuti, resti di animali
e di piante, ceneri, i suoi stessi avanzi corporei: ossa, pelle, escrementi,
ecc.), che nei giacimenti archeologici si trovano associati ai suoi manufatti e
dai quali ricaviamo quasi tutto quel che sappiamo circa il suo aspetto fisico,
l'ambiente in cui viveva (flora, fauna, clima, ecc.), le sue condizioni di vita
(consuetudini alimentari e abitative, malattie, ecc.).
PROSPEZIONI ARCHEOLOGICHE
Nella ricerca dei siti archeologici non si
va più a caso. Le tecniche oggi disponibili consentono agli archeologi di
esplorare il terreno in lungo e in largo prima di scavare. Gli scavi si fanno
«a colpo sicuro» là dove è stato individuato un
giacimento interessante.
Le principali tecniche di prospezione
sono:
a) la prospezione aerea; le foto aeree sono in grado di evidenziare
le irregolarità del terreno e della vegetazione; alcune caratteristiche
macchie bianche denotano l'esistenza di formazioni archeologiche;
b) la
prospezione geofisica, che comprende tecniche diverse, quali l'esame di piccole
scosse sismiche, la rilevazione delle anomalie magnetiche del terreno,
ecc.;
c) i sondaggi fotografici, usati per le cavità sotterranee
(caverne, tombe e simili): individuato il giacimento, si pratica un foro e vi si
introduce una sonda opportunamente attrezzata per fotografare l'interno. Si
ottiene così un'immagine, che da un lato permette di valutare
l'opportunità di procedere o meno a una campagna di scavo, e dall'altro
serve a documentare lo stato del giacimento prima della sua eventuale
manomissione.
Schema semplificato di sonda fotografica
LA CONCEZIONE BIBLICA NELLA STORIA
Nella Bibbia la parola «storia»
non c'è. Ma la Bibbia è a suo modo un libro di storia. Forse,
anzi, è il più importante libro di storia della tradizione
occidentale.
Qui, però, l'espressione «libro di storia»
non sta a indicare né un'opera intesa a ricostruire scientificamente il
passato, né una raccolta ragionata di testimonianze storiche. In questo
senso i primi libri di storia della tradizione occidentale dobbiamo cercarli,
come quasi tutto quello che riguarda la nostra cultura scientifica, nella Grecia
classica.
Ma se la Bibbia non contiene né indagini scientificamente
fondate (che non interessavano minimamente i suoi autori) né
testimonianze storiche attendibili (perché quelle che nella Bibbia
possono essere considerate «testimonianze» sono segnate da una
esperienza religiosa tanto intensa da sopraffare qualunque dato storico), la sua
ispirazione centrale ha a che fare appunto con la storia: è una sorta di
grande favola che ha per protagonista l'umanità. La visione della storia
che esce da questo fantastico racconto ha influenzato profondamente e
durevolmente la cultura occidentale.
Secondo il racconto biblico, nel
paradiso terrestre la prima coppia umana era ammessa alla presenza di Dio. Dopo
il peccato originale, però, Adamo ed Eva e i loro discendenti sono stati
cacciati lontano: da quel momento Dio è nascosto agli occhi degli uomini.
Perché gli uomini possano conoscerlo Dio deve rivelarsi. Egli però
non comunica mai verità o dottrine astratte e non svela mai il mistero
della sua essenza: in questo senso si tiene sempre nascosto. Dio si rivela
invece con i fatti, e cioè intervenendo nella storia. I diretti
protagonisti della storia sono senza dubbio gli uomini, ma in mezzo a loro e per
loro mezzo opera Dio. Storia umana e rivelazione divina sono in effetti la
stessa cosa.
Per operare nel mondo Dio ha uno strumento d'elezione: il
popolo ebraico, con il quale ha stretto un patto di alleanza. Perché
proprio il popolo ebraico? è una domanda senza risposta giacché i
motivi delle scelte di Dio sono sempre misteriosi. La sola cosa certa è
che la scelta non è stata determinata dai meriti del popolo ebraico: il
popolo ebraico è solo un piccolo, rozzo popolo «dal collo duro»
(come dice la Bibbia). La scelta di Dio è un atto di grazia, ossia
è avvenuta non perché Dio fosse tenuto a farla, ma perché
così gli è piaciuto di fare.
Il patto che Dio ha stretto con
il popolo ebraico consiste da un lato nella promessa di Dio al suo popolo di
soccorrerlo nelle necessità e di condurlo alla salvezza, e dall'altro
nella promessa del popolo a Dio di mantenerglisi fedele e obbediente. Il peccato
(anche quello di Adamo ed Eva) è in sostanza disobbedienza e ribellione
verso Dio. Questo peccato si rinnova continuamente nella storia del popolo
ebraico, che, si potrebbe dire, è tutta intessuta di ribellioni
individuali o collettive contro Dio e di espiazioni individuali o collettive del
peccato. Dio, infatti, punisce inesorabilmente ogni violazione del patto: non
è soltanto un Dio consolatore e salvatore, ma anche un Dio vendicatore e,
all'occorrenza, sterminatore.
La denuncia del peccato e l'annunzio del
castigo divino è il contenuto fondamentale del messaggio dei profeti (dal
greco prophétes = «indovino», «interprete di
oracoli», legato a pròphemi, composto di pro- = «avanti»,
e di phemi = «parlo», «annuncio», «rendo
manifesto»). I contemporanei li consideravano ispirati da Dio ed essi
stessi affermavano di parlare in nome di Dio. Con i loro ammonimenti i profeti
tendevano a richiamare il popolo ebraico al confronto con Dio: lo spirito di
ribellione sarebbe stato punito con terribili sventure, catastrofi naturali o
rivolgimenti politici. Ma il messaggio dei profeti non si avvaleva solo di
denunce e di minacce: nelle più gravi crisi del popolo ebraico, quando
tutto sembrava perduto, i profeti rammentavano che nonostante la ribellione, al
di là della punizione, Dio conservava fede all'antico patto, e avrebbe
salvato i superstiti del suo popolo. Insomma il messaggio dei profeti era anche,
sempre, un messaggio di speranza.
La profezia del castigo e quella della
salvezza erano dirette di solito al solo popolo ebraico. Ma gradualmente si
formò la convinzione che la storia del popolo ebraico coinvolgesse i
destini di tutta l'umanità e che l'intero universo si stesse avvicinando
ad una catastrofe finale, dopo la quale si sarebbe instaurato sulla Terra il
Regno di Dio. Così, la storia dell'umanità (di tutta
l'umanità e non del solo popolo ebraico) veniva a configurarsi come il
faticoso processo di risalita del genere umano dagli abissi del peccato e
attraverso le catastrofi dell'espiazione, verso la salvezza
finale.
LA CONCEZIONE NEOTESTAMENTARIA DELLA STORIA: IL REGNO DI DIO
La concezione cristiana della storia si
riallaccia a quella ebraica ma vi introduce importanti novità. Per i
cristiani, come per gli ebrei, la storia è storia della rivelazione di
Dio e della salvezza dell'uomo; ma per i cristiani il momento culminante della
storia è la venuta di Gesù in Terra e particolarmente la sua morte
sulla croce. Il sacrificio di Gesù è infatti per i cristiani il
prezzo pagato per il riscatto dei peccati dell'uomo: se il peccato rappresenta
la rottura del patto di alleanza tra Dio e uomo e instaura tra uomo e Dio uno
stato di inimicizia, la morte di Gesù è il prezzo della loro
riconciliazione. Per i cristiani, dunque, la venuta di Gesù in Terra
divide nettamente la storia dell'uomo in due tronconi: prima di Cristo è
l'età del peccato e dell'inimicizia; dopo Cristo è l'età
del perdono, della riconciliazione, della grazia.
La nuova età
inaugurata dalla venuta di Cristo non è ancora il Regno di Dio atteso
dagli ebrei; ne è però l'annuncio, l'anticipazione.
L'instaurazione del Regno di Dio avverrà alla fine dei tempi, quando i
morti risusciteranno e saranno giudicati per le loro azioni. Ma la risurrezione
di Gesù è già un'anticipazione della vittoria finale della
vita sulla morte, è una sorta di caparra che conferma la promessa della
resurrezione finale di tutti gli uomini.
Gesù è un secondo
Adamo nel senso che è il primogenito di un'umanità rinnovata; ma
mentre Adamo ha portato agli uomini la morte, Gesù ha portato la vita.
Dice San Paolo:
... Come per mezzo di un uomo è venuta la
morte, così per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei
morti. Poiché come tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno
vivificati in Cristo...
La morte e la risurrezione di Gesù
hanno segnato una vittoria decisiva delle forze del bene sulle forze del male,
della vita sulla morte. Ma le conseguenze di questa vittoria non sono ancora
manifeste; la certezza stessa della vittoria è ancora per il cristiano un
atto di fede; la redenzione dell'umanità (ossia la sua liberazione dalla
schiavitù del peccato) è ancora soltanto una promessa, che attende
un adempimento al termine della storia. La storia è destinata dunque ad
avere una fine: Cristo tornerà e la promessa sarà adempiuta, con
la risurrezione dei morti, con il giudizio finale, con l'affermazione piena e
definitiva del Regno di Dio.
Creazione, Venuta di Cristo, Ritorno di
Cristo: questi sono i termini entro i quali scorre la storia dell'uomo. Come si
vede, non si tratta di uno scorrere qualsiasi, ma di uno scorrere da un punto ad
un altro secondo una direzione ben precisa: ogni epoca storica è una
tappa di un itinerario prestabilito. L'umanità è spinta avanti
dalla provvidenza di Dio, la storia è una marcia di avvicinamento al
Regno di Dio.
Il pianto della Madonna
IL TEMPO DELLA FINE
Dove va il mondo? Quale sarà la
sorte dell'uomo? Spesso gli uomini hanno preteso di conoscere la sorte ultima
del mondo, il destino finale dell'umanità. «Escatologia» (dal
greco éscatos = «ultimo») è appunto la dottrina delle
cose ultime e finali. Non si tratta di conoscenze o di previsioni
«scientifiche», ma di visioni profetiche, di immaginazioni dettate
dall'entusiasmo religioso (e perciò spesso ritenute rivelazioni divine),
nelle quali possiamo trovare espressi nel modo più suggestivo i
significati che le diverse culture e le diverse civiltà hanno attribuito
alla vita e alla storia dell'uomo.
La tradizione ebraico-cristiana è
forse la più ricca di temi escatologici: come si è visto, la
storia del genere umano appare indirizzata e guidata dalla volontà di Dio
e la meta verso la quale gli uomini sono sospinti è la vittoria del bene
sul male, della vita sulla morte. Questa vittoria è la piena rivelazione
di Dio. Dio non si rivela per quello che è, ma per quello che fa.
Perciò la sua rivelazione è innanzi tutto il trionfo della sua
giustizia, l'instaurazione del suo Regno.
In un certo senso Dio regna
già sul mondo; Dio, anzi, è il Signore per
eccellenza:
Il Signore regna, tremino i popoli!
[...]
Il
Signore è grande in Gerusalemme
ed eccelso sui popoli
tutti.
(Salmo 98, 1-2)
Ma il mondo attuale non risponde
interamente al disegno della creazione, il male serpeggia nel mondo. L'ordine
della creazione dev'essere ristabilito, una Nuova Creazione appare necessaria.
In questo senso il Regno di Dio non è una realtà attuale, ma
futura; è la realtà che concluderà la storia umana. Il male
che serpeggia nel mondo chiama la morte e la distruzione come effetti del
giudizio divino. Il diluvio universale, la distruzione di Sodoma e Gomorra, la
deportazione degli Ebrei a Babilonia sono altrettanti giudizi di Dio. Ma un
nuovo, definitivo giudizio verrà alla fine dei tempi e non colpirà
più questo o quel popolo, questa o quella terra, ma tutta la Terra, tutta
l'umanità:
... Il Signore devasterà la Terra e la
spoglierà,
desolerà la sua faccia, disperderà i suoi
abitanti. [...] La Terra è colma della corruzione dei suoi abitanti,
perché essi hanno trasgredito le leggi, manomesso il diritto, infranto il
patto eterno. Per questo la maledizione divorerà la Terra. (Isaia 24, 1;
24, 5-6)
Dio risparmierà i giusti,
... ma ai suoi
nemici farà sentire il suo sdegno. Perché, ecco, il Signore
verrà nel fuoco, e saranno come un turbine i suoi carri, per ripagare i
nemici col furore della sua indignazione e colla vendetta d'un fuoco che
avvampa. (Isaia 66, 15)
I morti allora risusciteranno e saranno
giudicati secondo i loro meriti:
... E quei molti che riposano nella
polvere della terra si risveglieranno, alcuni per la vita eterna, altri per
l'eterna perdizione. (Daniele 12, 2)
è il momento della Nuova
Creazione; per coloro che saranno salvati inizia una beatitudine eterna che
neppure il ricordo delle tribolazioni passate potrà
turbare:
... Ecco, io creo nuovi cieli e nuove terre; e le cose di
prima non vi torneranno più alla memoria. Godrete e gioirete eternamente
di quelle cose che io creo, perché io creo una Gerusalemme gaudiosa.
(Isaia 65, 17-18)
Spesso nell'Antico Testamento l'avvento del Regno
di Dio è preannunciato come opera di un inviato di Dio, il Messia.
«Messia» (la parola significa unto del Signore, ossia consacrato)
è il titolo attribuito ai re d'Israele. Il Messia incaricato di portare a
compimento l'opera di salvazione è dunque il sovrano degli ultimi tempi,
il re del tempo della fine. La sua prerogativa essenziale è quella di
essere giudice giusto, esecutore d'una giustizia non estrinseca, formale ed
astratta, ma capace di penetrare nei cuori. Il suo compito è di
restaurare l'ordine antico della creazione, che è un ordine di pace e di
mansuetudine tra tutti gli esseri, un ordine dove è bandita la
paura:
... E il lupo dimorerà con l'agnello
e il leopardo
s'accovaccerà col capretto
e il vitello e il leone e la pecora
staranno assieme
e un piccolo fanciullo li condurrà.
(Isaia 11,
6)
Altre volte però nell'Antico Testamento questa missione di
salvezza appare affidata a un Servo del Signore, che non si ammanterà
della maestà dei re e della potenza dei giudici, ma che anzi per la sua
umiltà sfuggirà all'attenzione dei più. Volontariamente
egli si sottometterà a gravi sofferenze accollandosi tutte le colpe degli
uomini e queste sofferenze offrirà a Dio come riscatto dei peccati
dell'umanità, come prezzo per la sua riconciliazione con gli
uomini:
... Non ha bellezza alcuna né splendore, noi l'abbiamo
visto e non aveva alcuna apparenza che attirasse i nostri sguardi. Abbietto,
l'ultimo degli uomini, l'uomo dei dolori [...]: così abbietto che non ne
abbiamo fatto alcun conto. Ma in verità egli si è caricato delle
nostre infermità e si è addossati i nostri dolori: e noi l'abbiamo
trattato come un lebbroso, un segnato da Dio, e l'abbiamo umiliato. Ma egli
è stato trafitto per le nostre iniquità, è stato
maltrattato per le nostre colpe: il castigo per la nostra rappacificazione
è stato addossato a lui e noi siamo risanati in virtù delle sue
piaghe. [...] è stato sacrificato perché lo ha voluto e non ha
aperto bocca. (Isaia 53, 3-5; 53, 7)
Gli Ebrei erano portati a
individuare nel Messia il liberatore del loro popolo e a dare un concreto
significato politico (oltre che religioso) al suo futuro Governo. I Cristiani
invece, davano alla sua missione un significato esclusivamente religioso e
soprattutto sottolineavano come l'opera salvifica di Gesù riguardasse
tutti i popoli della Terra e non solo il popolo ebraico. In più, i
Cristiani unificarono nella figura di Gesù Cristo sia l'immagine
trionfante del Messia, sia l'immagine dell'umile Servo del Signore che riscatta
col suo sacrificio i peccati dell'umanità. In quanto Messia e Servo del
Signore Gesù viene in Terra ad annunciare ed a preparare il Regno di Dio
(Vangelo in greco significa appunto «annuncio»). La sua morte (il suo
sacrificio) e la sua risurrezione costituiscono una vittoria decisiva sul male
in quanto sono la promessa, il pegno, la caparra che garantiscono la
riconciliazione di Dio con gli uomini.
Il Regno di Dio però è
ancora di là da venire. Tra la promessa e il suo adempimento, tra la
vittoria potenziale di Cristo (la sua morte e risurrezione) e il suo trionfo
definitivo corre tutta un'età storica; che è anche l'ultima
età della storia: essa si chiuderà con il Ritorno di Cristo, che
segnerà la risurrezione dei morti, il giudizio finale, l'affermazione
manifesta e definitiva del Regno di Dio. Il Vangelo di Marco racconta che
Pietro, Giacomo e Giovanni avevano chiesto a Gesù quando sarebbero
successe tutte queste cose e quale sarebbe stato il segno del loro accadere.
Gesù aveva risposto:
... Badate che nessuno vi seduca. Molti
verranno in mio nome dicendo: «Sono io» e ne sedurranno parecchi.
Quando poi sentirete guerre e rumori di guerre, non temete: è necessario
che queste cose avvengano, ma non sarà ancora la fine. Perché si
solleverà nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno
terremoti in vari luoghi e carestie. Ma sarà solo il principio della
prova. [...] In quei giorni, dopo quella tribolazione, s'oscurerà il sole
e la luna non darà più la sua luce e cadranno le stelle del cielo
e le forze del cielo si sommuoveranno. Allora si vedrà il Figliuolo
dell'uomo venire sulle nuvole con gran potenza e gloria. [...] Quanto poi al
giorno e all'ora nessuno li sa, né gli angeli del cielo, né il
Figliuolo dell'uomo ma il Padre soltanto. State in guardia, vigilate e pregate
perché non sapete quando sarà il tempo (Marco 13, 5-8; 24-26;
32-33)
I primi cristiani ritenevano imminente il ritorno di Cristo e
quindi la fine del mondo che l'avrebbe preceduto. Il senso di questa imminenza
pervade quasi tutti gli scritti che costituiscono il Nuovo Testamento e serviva
a sottolineare l'urgenza che ogni uomo facesse la sua scelta tra bene e male.
«Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino», dice il
Vangelo di Marco; «è l'ultima ora», dice il Vangelo di
Giovanni. La più famosa visione cristiana della fine del mondo,
l'Apocalisse di Giovanni («Apocalissi» in greco significa rivelazione)
lo ribadisce proprio all'inizio e alla fine:
... Beato chi legge e
chi ascolta le parole di questa profezia e osserva ciò che c'è
scritto in essa. Il tempo infatti è vicino. [...] Colui che attesta
queste cose dice: - Sì, io vengo presto! - Amen! Vieni, Signore
Gesù! (Apocalisse 1, 3; 22, 20)
Col tempo, il fatto che questa
attesa non si fosse realizzata ha fatto diminuire sensibilmente l'attenzione per
il momento della fine e ha rivalutato l'importanza dell'età attuale che
sembra capace di durare oltre ogni previsione. Ma in fondo, che il ritorno di
Gesù sia vicino o lontano conta poco. L'epoca attuale, che è
iniziata con la prima venuta di Cristo e che terminerà con la sua seconda
venuta, è pur sempre per il cristiano, l'ultima età del mondo, il
tempo della fine, l'anticipazione del Regno di Dio.
BOSSUET E IL DISEGNO DIVINO
Il francese Jacques-Bénigne Bossuet,
un alto prelato cattolico della seconda metà del Seicento, ha riassunto
nel Discorso sulla storia universale (1681) la concezione cristiana della
storia. La storia, secondo lui, è la realizzazione di un disegno divino;
per questo il piccolo popolo ebraico, che è il popolo eletto da Dio,
è il centro verso cui gravita la storia di tutta l'umanità prima
della venuta di Cristo. I grandi imperi dell'antichità, secondo lui, sono
vissuti in funzione del popolo ebraico:
... Dio si è servito
degli Assiri e dei Babilonesi per castigare questo popolo; s'è servito
dei Persiani per ristabilirlo; di Alessandro e dei suoi successori per
proteggerlo; d'Antioco e dei suoi successori per metterlo alla prova: s'è
servito dei Romani per difendere la sua libertà contro i re di Siria che
non pensavano che a distruggerlo. E quando gli Ebrei hanno misconosciuto Dio e
l'hanno crocifisso, questi stessi Romani hanno prestato senza saperlo le proprie
mani alla vendetta divina e hanno sterminato questo popolo
ingrato.
Ma l'evento centrale di tutta la storia è,
naturalmente, la venuta di Cristo e la predicazione del Vangelo. Il popolo di
Dio non è più ormai il popolo ebraico, ma la folla dei credenti in
Cristo. L'impero romano non ha fatto che preparare la nascita di questo nuovo
popolo di Dio.
... Dio aveva deciso di raccogliere da tutte le
Nazioni il popolo nuovo, ha riunito in primo luogo le terre e i mari sotto un
solo impero. Le relazioni tra tanti popoli diversi, un tempo stranieri gli uni
agli altri e poi riuniti sotto la dominazione romana è stato uno dei
più potenti mezzi di cui la Provvidenza s'è servita per aprire la
strada all'Evangelo. Se lo stesso impero romano ha perseguitato per trecento
anni questo nuovo popolo che nasceva da ogni parte nel cerchio dei suoi confini,
questa persecuzione ha rafforzato la Chiesa e ne ha fatto risplendere la gloria,
la fede, la pazienza. Infine l'impero romano ha ceduto e avendo trovato qualcosa
di più invincibile di lui, ha accolto pacificamente nel suo seno quella
stessa Chiesa a cui aveva fatto una lunga e crudele guerra. Gli imperatori hanno
messo il loro potere al servizio della Chiesa e Roma è diventata la
capitale dell'impero spirituale che Gesù Cristo ha voluto estendere sulla
Terra.
Se l'impero romano era diventato cristiano, non tutti i Romani
erano disposti ad accettare la nuova religione. Dio allora aveva abbandonato
Roma nelle mani dei Barbari:
... Roma è presa tre o quattro
volte, depredata, saccheggiata, distrutta. La spada dei Barbari perdona solo ai
cristiani. Un'altra Roma tutta cristiana sorge dalle ceneri della prima ed
è soltanto dopo l'inondazione dei Barbari che si completa la vittoria di
Gesù Cristo sugli dei romani, che sono ormai non soltanto distrutti, ma
dimenticati... Liberata per mezzo di questi disastri dai resti dell'idolatria,
Roma non sussiste più che in virtù del cristianesimo, ch'ella
annuncia a tutto l'universo.
Così tutti i grandi imperi che abbiamo
visto sulla Terra hanno concorso con diversi mezzi al bene della religione e
alla gloria di Dio come Dio stesso aveva annunciato per mezzo dei suoi
profeti.
In sostanza Bossuet divide la storia dell'umanità in
sette grandi età.
La prima si apre con la creazione del mondo, che
Bossuet data al 4004 a.C. Il peccato di Adamo e di Eva trascina nella
maledizione l'intero genere umano e le conseguenze non tardano a farsi sentire:
Abele è ucciso da Caino e apre in tal modo la lunga schiera di coloro che
sono perseguitati a causa della propria virtù. La Terra comincia a
empirsi dei figli e dei nipoti di Adamo. Ma i costumi di questa gente peggiorano
di giorno in giorno fino a che Dio decide di far piazza pulita con il Diluvio
Universale, dal quale salva Noè e i suoi, i soli giusti della
Terra.
La seconda età si apre con l'opera di ricostruzione di
Noè. La Terra torna a popolarsi, ma gli uomini crescendo di numero
crescono anche in presunzione e pensano di costruire un'enorme torre per dar la
scalata al cielo. Dio interviene creando la confusione delle lingue, che
impedisce agli uomini di collaborare e di proseguire nell'opera intrapresa.
L'umanità si divide in popoli spesso ostili fra loro: nasce la guerra,
nascono le leggi, nasce il potere statale.
La terza età è
l'età dell'alleanza tra Dio e il suo popolo. Gli uomini infatti vanno
dimenticando i loro doveri verso Dio, cominciano ad adorare false
divinità, instaurano culti idolatrici. Di fronte a questo generale
smarrimento Dio decide di separare dagli altri popoli un popolo di veri
credenti. Stringe così un patto di alleanza con Abramo, che sarà
il capostipite di questo popolo, gli Ebrei. Ad Abramo succede Isacco, a Isacco
Giacobbe. Con Giuseppe gli Ebrei si trasferiscono in Egitto, dove vengono
perseguitati fin quando Mosè non si mette alla loro testa e li guida
fuori dell'Egitto.
Con l'esodo degli Ebrei dall'Egitto, si apre la quarta
età, l'età della legge scritta. In precedenza infatti le leggi che
governavano gli uomini erano semplicemente leggi consuetudinarie o leggi di
natura. Ora invece Dio detta a Mosè il Decalogo, che è legge
divina e fondamento d'ogni legge scritta e positiva. Fuori delle vicende del
popolo ebraico un avvenimento notevole di quest'età è la
distruzione di Troia.
La quinta età comincia col regno di Salomone
che edifica il Tempio di Dio. Dopo un periodo di splendore, il popolo ebraico in
conseguenza dei suoi peccati conosce la sconfitta, la schiavitù e
l'esilio in Babilonia. è nel corso di questa età che viene fondata
Roma.
La sesta età è quella che prepara l'avvento di Cristo.
Il popolo ebraico è ristabilito nella sua terra e nel suo culto. I grandi
imperi dell'antichità si succedono l'uno all'altro sinché l'impero
romano si impone a tutti e unifica il mondo civilizzato ossia il Mediterraneo
(Bousset non fa caso alle grandi civiltà sorte in altre aree, la cinese e
l'indiana, che pure erano ormai ben conosciute in Europa).
La settima
età si apre con la nascita di Gesù. è l'età della
Chiesa, del nuovo popolo di Dio; è soprattutto l'ultima età del
mondo. Dio, dice Bossuet a conclusione di questo suo schizzo di storia
universale, dall'alto dei cieli tiene le redini di tutti i regni della Terra.
Perciò nella storia non c'è né il caso, né la
fortuna:
... Quello che per il nostro incerto giudizio è il
caso, costituisce un preciso disegno per un giudizio più alto, e
cioè per quel giudizio eterno che comprende in uno stesso ordine tutte le
cause e tutti gli effetti. Ogni cosa concorre ad uno stesso fine; ed è
proprio perché ci sfugge il disegno totale, che noi crediamo di trovare
negli eventi particolari casualità e disordine.
LA MODERNA CONCEZIONE DELLA STORIA
La concezione della storia elaborata dalla
moderna cultura occidentale presenta evidenti affinità, ma anche
importanti differenze rispetto a quella ebraico-cristiana. Ciascuno può
credere o non credere nell'esistenza di Dio, ma nessuno storico moderno (neppure
un sincero credente) oserebbe parlare delle vicende storiche come di
manifestazioni della volontà o della potenza divina: se lo facesse
desterebbe soltanto ilarità.
In primo luogo, dunque, la moderna
concezione della storia si distingue da quella ebraico-cristiana perché
fa a meno dell'idea di Dio: protagonisti della storia sono gli uomini non gli
Dei. In secondo luogo la moderna concezione della storia si differenzia da
quella ebraico-cristiana perché rifiuta l'idea di un tempo ultimo, di una
fine della storia. Ciò non significa che la moderna cultura occidentale
creda nell'eternità del mondo. Al contrario, è altamente probabile
che al termine d'una lunga evoluzione le condizioni del sistema solare cambino
tanto da rendere impossibile la vita sul nostro pianeta; ma quello che la
cultura moderna rifiuta è l'idea ebraico-cristiana che la fine del mondo
abbia un significato soprannaturale (l'instaurazione del Regno di Dio) e un
valore positivo (la vittoria definitiva del bene sul male). Secondo la
concezione moderna della storia non c'è nulla di definitivo nella storia
e il significato stesso delle parole «bene» e «male» varia
con il variare delle culture. In terzo luogo la moderna concezione della storia
si distingue dalla concezione cristiana in quanto non attribuisce nessun rilievo
particolare alla venuta di Gesù: non ci sono nella storia momenti
privilegiati.
L'influenza della tradizione ebraico-cristiana sulle moderne
concezioni della storia si può ricondurre a un paio di grandi temi.
Innanzi tutto, affermando che la storia è la realizzazione progressiva di
un disegno divino, il pensiero ebraico-cristiano ha affermato che il mutamento
incessante delle vicende umane non è una trasformazione caotica e priva
di senso, ma un processo razionale (anche se di una razionalità non
sempre facilmente comprensibile): è infatti il processo stesso della
rivelazione di Dio. Quest'idea della razionalità della storia è
sostanzialmente accettata dalla moderna cultura occidentale, anche se in un
senso assai diverso: nel senso, cioè, che è sempre possibile
capire attraverso l'attenta ricostruzione del passato le ragioni di certi
avvenimenti, le cause di certe trasformazioni, la necessità di certe
linee di sviluppo.
In secondo luogo la tradizione ebraico-cristiana
parlando della storia come di una rivelazione progressiva di Dio, oppure (ma si
tratta in sostanza della stessa cosa) come di una progressiva marcia di
avvicinamento dell'umanità al Regno di Dio, ha suggerito l'idea che ogni
epoca sia migliore, più ricca, più avanzata della precedente.
Questa idea è stata in parte accolta dalla moderna cultura occidentale
nel concetto di progresso. Naturalmente essa è stata spogliata d'ogni
significato religioso. Per di più il progresso non è più
inteso (almeno in generale) come qualcosa di fatale, una legge necessaria dello
sviluppo storico, ma piuttosto come una semplice possibilità. Il
regresso, in sostanza, è possibile tanto quanto il progresso e
l'eventualità che le sorti future dell'umanità siano migliori
delle attuali e delle passate resta affidata esclusivamente al buon senso e alla
buona volontà di tutti noi.
LE ERE
Poiché per i cristiani l'evento
centrale di tutta la storia umana è la venuta di Gesù, è
del tutto naturale che la nascita di Gesù sia stata assunta da loro come
punto di riferimento nel computo degli anni. Se si rappresenta il succedersi
degli anni con una retta, il punto zero della retta stessa coincide con il
momento della nascita di Gesù: a destra vengono segnati gli anni che
seguono la nascita di Gesù e a sinistra quelli che la
precedono:

Pare che gli antichi computisti
cristiani che tentarono di determinare l'anno della nascita di Gesù siano
incorsi in un errore.
L'avvenimento cadrebbe cioè da cinque a nove
anni prima dell'inizio dell'era cristiana. La cosa naturalmente non ha molta
importanza perché nessuno è in grado di dire con precisione quando
Gesù sarebbe nato; perciò la data tradizionale è stata
conservata, anche se sbagliata.
L'era cristiana è entrata in uso nel
VI secolo d.C. e oggi è adottata anche in molti Paesi non cristiani:
è una delle conseguenze del lungo dominio che l'Europa ha esercitato sul
mondo. Prima dei cristiani, i Romani contavano gli anni a partire da quella che
per loro era la data più importante, ossia la fondazione di Roma: anche
su questa data c'erano incertezze ed è soltanto per convenzione ch'essa
venne fissata all'anno che nell'era cristiana corrisponde al 753 a.C. Dopo i
cristiani, anche i musulmani presero a contare gli anni dall'evento per loro
più significativo, ossia dall'egira, la fuga di Maometto dalla Mecca che
avvenne nell'anno 622 dell'era cristiana.
L'era di Roma, l'era cristiana e
l'egira di Maometto sono solo alcuni dei modi di computare il tempo entrati in
uso nel mondo mediterraneo; ve ne sono sempre stati altri, talvolta usati
insieme a uno di questi tre. In certe regioni della penisola iberica e
dell'Africa settentrionale, ad esempio, fu in uso per molto tempo la cosiddetta
era di Spagna, che partiva dal 38 a.C., ossia dall'anno in cui, compiuta la
conquista romana della Spagna, vi venne introdotto ufficialmente il calendario
giuliano.
Un altro sistema di computo molto usato nel mondo
ebraico-cristiano fu l'era del principio del mondo o della creazione. Il guaio
di questo sistema era che la determinazione del momento esatto della creazione
sulla base delle indicazioni fornite dalla Bibbia risultava assai difficile
sicché le opinioni dei dotti erano in proposito divise. Comunque la data
dell'inizio del mondo che ebbe maggior credito fu quella del 5509 a.C., adottata
largamente nelle regioni orientali del Mediterraneo, nelle province dell'impero
bizantino e in genere in tutte le terre in cui prevaleva la religione
cristiano-ortodossa.
Anche in tempi recenti sono state proposte nuove ere,
in sostituzione o a complemento delle ere tradizionali. All'epoca della
Rivoluzione Francese, per esempio, s'introdusse un nuovo calendario e un nuovo
sistema di computo degli anni, che partiva dal 22 settembre 1792, il giorno
della proclamazione della Repubblica Francese. In Italia sotto il fascismo si
introdusse l'era fascista, il cui inizio era fissato al 28 ottobre 1922, giorno
della marcia su Roma; l'era fascista si usava insieme all'era cristiana e se ne
indicavano gli anni con numeri romani.
ERA DELLE OLIMPIADI
Fino alla fine del IV secolo d.C., quando
furono aboliti dall'imperatore Teodosio, i giochi olimpici si svolgevano ogni
quattro anni raccogliendo presso il santuario di Zeus in Olimpia atleti di tutte
le regioni della Grecia. Secondo la tradizione le prime olimpiadi furono
celebrate nel 776 a.C. L'era delle Olimpiadi, ossia il sistema di computare gli
anni in base al numero dei quadrienni trascorsi dal 776, fu introdotto
però solo nel III secolo a.C.
ERA DI DIOCLEZIANO
L'era di Diocleziano (detta anche dei
martiri, a ricordo delle persecuzioni ordinate da quell'imperatore contro i
cristiani) iniziava a contare gli anni dall'elezione di Diocleziano avvenuta il
29 agosto del 284 d.C.; era diffusa in Egitto e in alcuni Paesi d'Occidente.
è ancora in uso presso i copti dell'Alto Egitto.
ERA DELL'INDIZIONE
Nel tardo impero romano l'indizione era un
meccanismo fiscale mediante il quale ogni 15 anni venivano riviste le imposte. A
partire dal 313 d.C., sotto l'imperatore Costantino, l'indizione servì a
datare i documenti: gli anni di ogni periodo venivano indicati da 1 a 15 per poi
ricominciare. Non era precisato a quale indizione si riferissero gli anni, per
cui questa datazione crea notevoli problemi.
ERA BIZANTINA
Tra le ere del principio del mondo quella
bizantina fu molto usata nel Medio Evo soprattutto nel mondo greco-ortodosso.
Poneva l'origine del mondo nel 5508 a.C., sicché il primo anno dell'era
cristiana corrispondeva al 5509. Rimase in vigore anche dopo la caduta
dell'Impero d'Oriente e in Russia fu abolita solo nell'anno 1700, quando lo zar
Pietro il Grande introdusse il calendario gregoriano.
ERA CRISTIANA
L'era cristiana venne proposta in
sostituzione dell'era di Diocleziano da un dotto monaco romano, Dionigi il
Piccolo, agli inizi del VI secolo. Fu lo stesso Dionigi che fissò la
nascita di Cristo all'anno 753 dell'era di Roma ed anche se la datazione
è sbagliata finì per essere universalmente accettata. L'era
cristiana venne adottata nel secolo VII in Inghilterra, nell'VIII in Francia,
nel IX in Germania, nel XIV in Spagna, nel XV in Grecia e in
Portogallo.
EGIRA DI MAOMETTO
L'era musulmana inizia il computo degli
anni dal 16 luglio del 622 d.C., giorno in cui Maometto con poche decine di
seguaci fuggì dalla Mecca (egira significa appunto «fuga») per
rifugiarsi a Medina, da dove, otto anni più tardi, divenuto ormai capo di
una potente comunità politico-religiosa, sarebbe rientrato trionfante in
patria. L'era dell'egira entrò in uso subito dopo la morte di Maometto,
avvenuta nel 632. Il confronto con il nostro computo degli anni non è
facile perché l'anno musulmano, che è puramente lunare (è
fatto di dodici mesi alternativamente di 30 e 29 giorni), è più
corto del nostro di una decina di giorni, sicché occorrono 33 anni
musulmani per fare 32 dei nostri.
IL CAPODANNO
Il confronto tra ere diverse è
complicato dal fatto che l'anno non inizia ovunque nello stesso giorno. L'anno
olimpico, per esempio, iniziava il 1° luglio. Ciò vuol dire che il
primo anno dell'era cristiana corrisponde al quarto anno della 194ª
olimpiade per il semestre da gennaio a giugno, e al 1° anno della 195ª
olimpiade per il semestre da luglio a dicembre. Nelle regioni dell'impero
bizantino o di religione grecoortodossa l'anno cominciava dal 1° settembre,
sia che si adoperasse l'era della creazione del mondo, sia che si adoperasse il
computo dell'indizione.
Anche con la generale adozione dell'era cristiana
restò in Europa una grande diversità di «stili» relativi
all'inizio dell'anno. Lo stile moderno che pone il capodanno al 1° gennaio,
è detto «della Circoncisione», dalla festa che la Chiesa
celebra in quel giorno. In passato però erano assai più diffusi lo
stile «della Natività» e quello
«dell'Incarnazione».
STILE DELLA NATIVITÀ
L'anno inizia con il 25 dicembre, ossia con il
giorno in cui, fin dal III secolo d.C., le Chiese cristiane celebrano la festa
del Natale. Lo stile della Natività anticipa di sette giorni sullo stile
moderno. Ciò significa che gli ultimi sette giorni di dicembre
appartengono già al nuovo anno: così, per esempio, il 28 dicembre
1990 è, secondo lo stile della Natività, il 28 dicembre
1991.
STILE DELL'INCARNAZIONE
Usato per lungo tempo, e quasi altrettanto
diffuso dello stile della Natività, faceva iniziare l'anno il 25 marzo,
festa dell'Annunciazione (ossia del concepimento di Gesù). Esistono due
modi diversi di computare gli anni secondo lo stile dell'Incarnazione. Il modo
detto «pisano» (perché in uso a Pisa) anticipava correttamente
di nove mesi (la durata di una gravidanza) rispetto allo stile della
Natività. Il modo detto «fiorentino» differiva dal pisano di un
anno esatto, perché contava gli anni dal 25 marzo successivo alla nascita
di Gesù. Il modo pisano coincide con lo stile moderno dal 1° gennaio
al 24 marzo, mentre bisogna aggiungere un anno al nostro computo tra il 25 marzo
e il 31 dicembre. Il modo fiorentino coincide con il nostro dal 25 marzo al 31
dicembre, mentre bisogna togliere un anno al nostro computo tra il 1°
gennaio e il 24 marzo.
STILE DELLA PASQUA
Lo stile della Pasqua, detto anche
«francese» perché usato in Francia sino al XVI secolo, creava
non poche difficoltà facendo iniziare l'anno da una festa mobile quale
è, appunto, la Pasqua. Rispetto allo stile moderno ritardava di un
periodo variante da due mesi e 22 giorni a tre mesi e 24
giorni.
REGNI E DINASTIE
Anche se la leggenda cinese è ricca
di riferimenti cronologici ai tempi più lontani e i giapponesi hanno
fissato ad una data precisa il momento in cui un discendente della Dea del Sole
è sceso in terra per dare origine alla ininterrotta dinastia imperiale,
cinesi e giapponesi non attribuiscono particolare importanza a nessuna data
specifica della loro vicenda storica e perciò non contano gli anni a
partire da un evento determinato.
Per orientarsi nelle successioni storiche
l'elemento fondamentale è fornito da una istituzione tipica che si chiama
Nien-hao in cinese e nengo in giapponese.
Questa espressione significa
letteralmente «Numero, segno o nome di anno» e si traduce di solito
come «titolo di regno». Quando un sovrano saliva al trono stabiliva
l'inizio di una nuova era alla quale veniva dato un nome bene augurale scelto in
base a complicate considerazioni astrologiche. è questo «titolo di
regno» che costituisce la scansione di base della storia nei Paesi
estremo-orientali. Il 1635, ad esempio, è in Cina il 4 anno Yung-hui
dell'imperatore Kao-tsung dei T'ang e in Giappone il 1186 è il secondo
anno Bunji dell'imperatore Gotoba.
Anticamente (il suo uso risale al 163
a.C. in Cina e al 645 in Giappone), il «titolo di regno» poteva
variare anche molte volte durante il regno di un medesimo sovrano (vi sono dei
«titoli di regno» che sono durati un solo anno, perché
disgrazie collettive o personali avevano convinto il regnante che la scelta era
stata scientificamente scorretta). Tuttavia in Cina, quando iniziò la
dinastia Ming, nel 1368, il «titolo di regno» si identificò con
la vita dei diversi imperatori, tanto che, in Occidente, si è soliti
indicare gli imperatori delle ultime due dinastie (Ming e Ch'ing) con il
«titolo di regno» piuttosto che con il loro nome o titolo personale.
Una evoluzione analoga è avvenuta più tardi anche in Giappone dove
nel 1868 «titolo di regno» e permanenza in trono di un sovrano si
identificano (noi diciamo: l'imperatore Meiji, ma impropriamente. Meiji è
in realtà il nengô dell'imperatore Mutsuhito). Oggi, la Cina ha
abbandonato, o quasi, questa cronologia tradizionale; in Giappone, invece, essa
sussiste al fianco di quella di importazione occidentale.
Al di sopra di
questa articolazione minuta, ve ne è un'altra, che corrisponde grosso
modo a quella delle nostre fasi storiche (come Rinascimento, Barocco e
così via). Qui il ritmo è fornito dalle dinastie. La storiografia
confuciana collegava i mutamenti di dinastia con la concezione del «Mandato
del Cielo», una investitura divina che veniva perduta dai cattivi
governanti.
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CRONOLOGIA CINESE
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¦ 3000 a.C. ¦ HUANG-TI (IMPERATORE GIALLO) ¦
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¦ 2500 a.C. ¦ I TRE IMPERATORI SAGGI: ¦
¦ ¦ YAO ¦
¦ ¦ SHUN ¦
¦ ¦ YÜ ¦
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¦ SEC. XXI ¦ DINASTIA HSIA ¦
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¦ SEC. XVI ¦ DINASTIA SHANG ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ SECC. XII-XI ¦ DINASTIA CHOU ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 770 ¦ PERIODO DELLE PRIMAVERE E DEGLI AUTUNNI ¦
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¦ 440 ¦ PERIODO DEI REGNI COMBATTENTI ¦
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¦ 221 ¦ DINASTIA CH'IN ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 200 ¦ DINASTIA HAN ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 220 D.C. ¦ DINASTIE LOCALI ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 580 ¦ DINASTIA T'ANG ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 907 ¦ LE CINQUE DINASTIE ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 960 ¦ DINASTIA SUNG ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 1279 ¦ DINASTIA MONGOLA YÜAN ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 1368 ¦ DINASTIA MING ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 1644 ¦ DINASTIA CH'ING ¦
+--------------+------------------------------------------¦
¦ 1911 ¦ ¦
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